La minimal art e l'irrazionale

Testi di Maria Maddalena Monti 
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Tony Smith, DIE, acciaio, 1962


Questo testo si propone di verificare se la tanto sbandierata razionalità dell’arte minimalista sia un fatto davvero così onnipresente e definitivo o se per caso non ci siano anche in questo caso dei “residui” di irrazionalità che poi vanno ad informare, in modo sensibile, alcune scelte estetiche degli artisti minimalisti. Infatti la decisa differenziazione da correnti precedenti fortemente irrazionali come l’espressionismo astratto, ha portato troppo facilmente a giudicare i minimalisti come campioni del polo opposto (quello delle idee chiare e distinte). Siamo sicuri che però sia sempre così? La Gestalt ci insegna che anche un grigio chiaro visto in opposizione al nero profondo può sembrare bianco, non potrebbe essere quindi accaduto che il contrasto con l’inquietudine espressionista abbia fatto sembrare i minimalisti più razionali e logici di quanto in realtà non lo fossero veramente? Infatti prima del minimalismo abbiamo anche correnti riduttiviste (si pensi ad esempio alla pittura monocroma) che nascondono temi arcaici e simbolici. Si pensi poi al fatto che parallelamente troviamo in movimenti affini (e intersecanti) come quello della land art o delle primary structures frequenti riferimenti alle cosiddette culture primitive e al loro senso del sacro e del monumentale ciclopico, che non sfuggono completamente alla minimal ( si veda a questo riguardo il caso di Robert Morris). E infine si pensi al caso di Tony Smith. Tutte queste e altre esperienze verranno analizzate al fine di formare un piccolo abbozzo di documentazione che mostri anche la faccia oscura della luna del movimento minimalista.



1) La fortuna critica della minimal art

Nota sotto vari nomi di minimal art, strutture primarie o ABC art, l’arte minimalista ha sempre assunto nella critica le connotazioni di una tendenza fortemente ispirata a un rigido riduzionismo e a un formalismo essenzialista e per questo motivo è stata sovente messa a confronto (più o meno indebitamente) con le esperienze delle avanguardie formaliste europee. Tra i critici che si sono occupati del minimalismo occorre distinguere tra coloro che hanno svolto un ruolo di critica militante (coeva alla nascita e allo svolgimento della corrente artistica) e coloro che ne hanno fornito una rappresentazione storica a-posteriori in saggi e manuali.
Tra i primi una posizione di rilievo spetta al critico Gregory Battcock, autore di una tempestiva monografia sull’argomento, ma non vanno dimenticate neanche le opinioni di critici eminenti come Harold Rosemberg. Tra i secondi, per la scena italiana, possiamo menzionate Marisa Volpi Orlandini, Ermanno Migliorini, Renato Barilli, Filiberto Menna e per la scena internazionale Kennet Baker ed Edward lucie-Smith ( c’è ne sarebbero molti altri, ma per i fini di questo scritto queste testimonianze hanno un valore di campione).
Gregory Battcock, nell’ormai classico Minimal Art, sottolinea l’aspetto “architetturale” del minimalismo e il suo non privilegiare alcun punto di vista predeterminato nella fruizione dell’opera. In questo senso la minimal può riconoscere ogni dipendenza dalla cultura formalista europea, in quanto essa troverebbe la sua ragion d’essere in un modo tutto americano di intendere lo spazio, ispirato alle grandi dimensioni tipiche del paesaggio del nuovo continente (sia urbano che naturale). Non è un caso quindi se il discorso sui precursori della minimal inizia dall’arte dello scultore messicano Mathias Goeritz.

Riguardo all’origine della minimal Harold Rosemberg, in un passo spesso citato, tende a sottolineare il ruolo mediatore svolto da artisti come Ad Reinhardt e Barnett Newman nel traghettare l’arte americana dalla tradizione astratta ( in particolare l’astrazione post-pittorica) alle allora nuove esperienze che si stavano evidenziando alla mostra Primitive Structures, tenuta al Jewis Museum. Diversamente in un intervento della Volpi Orlandini del 1972 già si intravede un tentativo di storicizzazione che tende subito a stabilire profonde radici nella cultura europea a partire dal suprematismo maleviciano, passando per le poetiche del Bauhause. Per la Volpi alcuni concetti chiave di questa tendenza sembrano consistere nel riduzionismo, nel rigorismo purista, nello strutturalismo e nell’anti-espressionismo. Ermanno Migliorini sembra tralasciare ogni considerazione storica per concentrarsi soprattutto sull’azzeramento semantico e sul riduzionismo estetico, contrapposto al riduzionismo artistico, che sarebbe proprio del concettuale. Anche nel caso di Migliorini si ha però di fatto un’interpretazione implicitamente di taglio suprematista, che meglio si potrebbe confare alle teorie di Mlevic che a quelle degli americani. Renato Barilli insiste sull’aspetto neo-concreto del minimalismo cercandovi una spinta fenomenologica “verso le cose stesse”. Filiberto Menna poi include la minimal nel grande percorso della linea analitica dell’arte moderna in cui si incarna il razionalismo criticistico della cultura formalista originatasi in Europa come espressione della modernità. A questo punto non molto distante dagli italiani appare la storicizzazione operata da Kennet Beker che si apre subito con la pretesa influenza che i profughi europei avrebbero operato sul suolo americano permettendo la nascita della minimal art. Più articolato è invece il percorso individuato da Edward Lucie-Smith secondo cui l’Europa ha influenzato la corrente a cui i minimalisti si opponevano e cioè: l’espressionismo astratto, mentre per il resto il concetto chiave del minimalismo andrebbe reperito nell’"ordinamento". In tutte queste analisi, quasi tutte di taglio storico, troviamo due caratteristiche comuni: da una parte il tema delle origini del minimalismo che viene fatto risalire alle forme storiche del formalismo razionalista europeo e dall’altra il comune insistere su concetti tipicamente legati a un’idea quasi cartesiana della realtà. Ne risulta dunque un atteggiamento univoco mirante a sottolineare quelli che potremmo chiamare gli aspetti “freddi” della minimal art. Questi ultimi sembrano escludere infatti qualsiasi portata irrazionale, anche perché siamo inclini istintivamente a pensare che una componente irrazionale abbia bisogno di una qualche forma di significazione espressiva o simbolica per manifestarsi, il che nella minimal, appare perentoriamente negato. Il problema sta allora nel cercare di vedere se questo dato è veramente così univoco o se invece esistono almeno delle ambiguità dietro alle quali si annidano aspetti irrazionali.



2)Le premesse storico artistiche della minimal art

Occorre per prima cosa ripercorrere alcuni momenti della formazione del minimalismo per capirne meglio la contingenza storica senza farsi fuorviare dall’idea di un rigido e coerente progetto che costituirebbe lo “spirito” di questa corrente artistica.

2.1) Correnti opposte

L’arte minimalista emerge intorno al 1966 dopo un decennio, quello degli anni 50 americani, dominato dall’espressionismo astratto. La minimal sembra dunque costituire una reazione a questo clima segnato da forti implicazioni irrazionaliste. Non esamineremo qui dettagliatamente la complessità dell’espressionismo astratto e dei fenomeni che gli gravitano intorno; sarà sufficiente semplicemente ricordare alcuni dei temi che pongono questa corrente in relazione con l’irrazionalismo. Innanzi tutto va ricordato il legame con la cultura artistica europea consistente soprattutto nei riferimenti al surrealismo e a numerosi aspetti della pittura di Picasso. Inoltre troviamo, sempre in questa tendenza, richiami più ampi alle culture irrazionali: si pensi al successo della psicologia jughiana, che porta a concentrarsi sulla forza di ancestrali simbologie archetipiche o ancora al’interesse suscitato negli esponenti della cosiddetta Scuola del Pacifico dalle teorie orientali dello zen. Infine si può anche valutare l’influenza dell’esistenzialismo nel considerare il pathos dell’espressione artistica come manifestazione del desiderio di autenticità, da collocarsi nel contesto della nascente e alienante società di massa afflitta da kitsch e dal cattivo gusto dell’uomo medio.



2.2) Correnti affini

Al violento irrazionalismo dell’action painting già negli anni ’50 sembra contrapporsi la ricerca di artisti “dissidenti” quali Ad Reinhardt e Barnett Newman, i quali preparano la strada a un tipo diverso di astrazione, quello della color field abstraction, e che toccano le loro punte nell’uso del monocromo. Ogni passionalità sembra bandita, ma non per questo è stata bandita l’irrazionalità. Il monocromo sembra legarsi anche qui come in Europa a una maggiore astrazione intellettuale che però può assumere anche valenze mistiche e idealistiche. Dunque l’antiespressionismo e l’anti-gestualismo non costituiscono di per se prove inconfutabili di una recisa negazione delle istanze irrazionali.



3) Il confronto e l’intersezione con le correnti coeve

Negli anni ’60 la scena americana si anima attraverso un nuovo fiorire di “ismi” non sempre nettamente separati tra loro. Accanto alla minimal si sviluppano la land art, la conceptual art, la body art, l’anti-form ecc.. In particolare qui ci interessano le intersezioni tra minimal, land art e anti-form. Sappiamo ad esempio di artisti come Walter De Maria che hanno spostato il proprio campo di attenzione tra land e la minimal art. In questo crocevia di tendenze troviamo però un personaggio assolutamente rilevante per la minimal che ci fornisce una prima chiave di accesso alle istanze irrazionali della minimal art: si tratta di Robert Morris. Quest’ultimo in una dichiarazione sostiene di essersi ispirato all’arte preistorica dei dolmen e dei menhir. Tale attenzione alla cultura preistorica è condivisa infatti anche dalla land art che attraverso di essa scopre una nuova dimensione del rapporto con il paesaggio. Il rapporto che le neoavanguardie americane instaurano con la dimensione del primitivo è però di segno completamente diverso da quello che già interessò gli europei ai primi decenni del secolo. Infatti Picasso nel suo interesse per le maschere africane era suggestionato dall’idea dai un tribalismo dai tratti quasi inquietanti. L’alterità sepolta, magica e oscura dei popoli “primitivi”, presenti nelle colonie, presentavano relazioni con gli aspetti sepolti dell’uomo europeo, tanto da traboccare dal puro interesse specialistico dell’etnologia a campi come quello della psicologia del profondo, come sta a dimostrare Totem e tabù di Freud. L’europeo è quindi sedotto dall’idea di un’affinità tra selvaggio e inconscio. Nulla di tutto ciò è invece presente nel primitivo preistorico suscitato dalla land art e da Morris. Qui il primitivo non è collegato al selvaggio, al deviante e all’inconscio ma al contrario alle forme originarie dell’intelligenza, all’equilibrio e alla presunta sapienza “cosmica” che traspare dai monumenti preistorici. In questi anni, luoghi come Stonehenge vengono molto rivalutati per essere fatti oggetto nuovamente di culto, anche se si tratta di un culto hippy e non di un culto religioso vero e proprio (siamo ai prodromi della New Age). La perentoria solidità del monumento megalitico è ritenuta capace di sprigionare, pur nella sua essenziale semplicità di forme e nella sua aniconicità un’auraticità molto maggiore di qualsiasi opera complessa. La dimensione architetturale e monumentale di questi elementarissimi monoliti racchiude un’ineffabile sacralità che non è per niente razionale, ma che casomai sta all’origine della razionalità stessa. Esse racchiudono l’atomo dell’intelligenza umana e universale come ci mostra Kubrick in un film di quegli anni, film che ha come protagonista proprio un monolito “minimalista”. In questo senso la muta imponenza di questi oggetti elementari dalle dimensioni architetturali, se da un lato si pone come azzeramento dei significati iconici, dall’altro si impone nella forza della comunicazione pragmatica della propria monumentalità che si fa mediatrice di ineffabili caratteri fondamentali. In questo senso il minimalismo non razionalizza la figurazione poetica, attribuendole un rigore logico come fa il formalismo europeo, ma al contrario poetizza il fondamento logico attribuendogli un valore quasi feticistico. Un’operazione questa, che se è apparentemente razionalista è in realtà intimamente irrazionale. In questa prospettiva allora ha un diverso significato rileggere Battcock e cercare di capire perché lui metta l’accento su quella dimensione architetturale dell’opera che manca a tutte quelle esperienze europee di cui il minimalismo dovrebbe essere figlio.



4) Il caso di Tony Smith

Il cubo nero di Tony Smith è stato preso ad esempio da Migliorini per dimostrare l’azzeramento dei significati: esso è un cubo nero, nulla di più, e se fosse visto in un contesto non artistico potrebbe sembrare un supporto qualunque. Tony Smith però racconta di una sua esperienza che ha avuto una sera andando in autostrada in una vallata. Ad un certo punto si è ritrovato immerso nell’oscurità, dove tutto aveva lo stesso colore: il nero; quindi non ha pensato di rappresentare questo “nero” o questo “buio”, ma di presentarlo direttamente sotto forma di un semplicissimo oggetto nero. Questo caso è forse emblematico perché contiene al suo interno la descrizione di una specie di esperienza mistica ( dove il tutto si confonde e si percepisce se stessi come parte del tutto). Anche nell’operazione artistica si tratta di un caso di trascendenza delle forme concettualizzate della rappresentazione, esattamente come la “presentazione” di un “cubo di buio” trascende la “rappresentazione” di una situazione vissuta nel buio. La primitività sta allora nel scendere un gradino più in basso dei codici della comunicazione simbolico-razionale per offrire ciò di cui essa direttamente si compone. In questo senso l’arte minimal è irrazionale, perché non si accontenta di usare la razionalità ma cerca di dire ciò che sta prima e ciò di cui si compone la razionalità stessa calandosi in un’irrazionalità primigenia.

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