Sol LeWitt

testo di Maria Maddalena Monti

Senza titolo 1966
Sol LeWitt
9 settembre 1928 Hartford , Connecticut
8 Aprile 2007 New York


La New York degli anni '60 è ormai la capitale della cultura mondiale, tutta un fermento di nuove tendenze artistiche, laboratorio delle neoavanguardie. E' finita la stagione dell'informale e i nuovi movimenti rifiutano l'esasperato espressionismo della pittura del decennio precedente e spesso rifiutano la pittura stessa in favore di un' arte fatta di oggetti e comportamenti. Ai confini tra arte oggettuale e arte formalista sta il movimento della minimal art di cui Sol LeWitt è uno dei principali esponenti insieme a Bob Morris, Donald Judd, Carl Andre e tony Smith. La cultura americana ha profondamente assimilato la lezione razionalista venutagli dall'Europa nella prima metà del secolo ( J. Albers ma anche l'estetica architettonica di Mies van der Rohe) a tal punto che non ne sente più il debito e pensa di poter creare una nuova versione tutta americana di arte geometrica ed essenzialista. Troviamo in Sol LeWitt concetti chiave di questa operazione: serialismo, modularità della composizione, riduzione ai minimi termini di qualsiasi elemento formale fino a farlo quasi scomparire e infine, nella preponderanza dell'aspetto mentale della concezione dell'opera ( in questo senso LeWitt è anche il padre della conceptual art).

Già ad un primo sguardo quest'opera rivela una fondamentale innovatività rispetto all'arte formalista di matrice europea. Essa non è una composizione di forme ma sembra un semplice modello geometrico dimostrativo della scomposizione del cubo. Infatti è proprio la forma anonima del cubo il leit motive della produzione lewittiana degli anni '60. Esso è scelto proprio per la sua insignificanza espressiva tramite cui raggiungere il grado zero del significato formale, operazione questa che lascia spazio alla sola comprensione e valorizzazione dell'opera concettuale svolta. Sulla base atona del cubo LeWitt può condurre le sue variazioni seriali (o modulari) in cui al cubo viene tolto di volta in volta un lato, innescando un gioco matematico combinatorio e geometrico che nulla lascia all'inventiva. Come nulla lascia all'inventiva l'opera qui esaminata dove il cubo è diviso regolarmente in una griglia tridimensionale di cubi più piccoli. Nessuna domanda è sollecitata da opera come questa che vuole essere semplicemente ciò che mostra di essere in modo assolutamente esplicito e univoco. Nessuna domanda forse, tranne una e cioè se un'arte così anonima e priva di qualità, tanto da sembrare un oggetto di produzione industriale, può ancora essere chiamata tale. Siamo quindi ancora alla questione del ready-made dove l’oggetto non rivela ne la mano ne i sentimenti dell’artista, ma solo un concetto e un progetto mentale. Anche in quest’opera come nel rady-made rimane solo l’intenzione dell’artista. Ed è proprio per questo che il modus operandi di LeWitt inclina al concettualismo. L’opera perde la sua importanza è solo un residuo o una reificazione successiva che potrebbe benissimo essere evitata, cosa che infatti faranno i concettuali.

Quest’atteggiamento rigorista non permane in tutta la produzione di Sol LeWitt che dagli anni ’80 in poi si volge sempre più verso forme geometriche disposte e colorate in modo decorativo. Uno sviluppo simile era già toccato all’unico “pittore” minimalista Frank Stella che dopo il rigore geometrico era precipitato in un gradevole quanto superficiale decorativismo. Interessante è constatare come lo sviluppo in senso decorativo evita comunque a LeWitt di ricadere nell’espressiva composizione formalista astratta di radice europea, poiché la decorazione se da un lato accetta di compiacere l’occhio, dall’altro lato rimane, grazie alla sua superficialità, ancorata al grado zero del significato.

Rispetto al periodo storico-sociale nel quale si sviluppa quest’opera, occorre ricordare che ci troviamo nell’opulenta società dei consumi in cui infiamma la protesta giovanile che rivendica un totale rinnovamento dei costumi e un riazzeramento dei valori logori della mentalità borghese, una voglia di epurazione di cui i minimalisti sono i portavoce in campo artistico. Nel minimalismo ogni poesia èmorta, esso celebra solo la presenza (come presenza del concetto e dell’oggetto) depurata da ogni emozione, un’arte asettica come un laboratorio scientifico, ma un’arte anche utopistica in quanto protesa verso il futuro. Non è un caso se tutto l’immaginario fantascientifico del tempo descrive le società del domani progredito immerse in arredamenti di carattere inconfondibilmente minimalista.

Un’ultima parola spetta ai collegamenti con il mondo della musica infatti l’arte figurativa di LeWitt trova un esatto corrispondente nelle composizioni musicali di Philip Glass anch’esse minimaliste e scritte ed eseguite all’insegna del rigorismo riduzionista. In esse un modulo è sistematicamente variato nelle diverse combinazioni possibili, senza cadere però in forme di espressionismo dodecafonico. Ed è curioso notare come anche Galss negli anni ’80 abbia eseguito una svolta “decorativa” recuperando la tradizione tonale in senso semplicemente gratificante ma non espressivo.



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